Storia
Prima di quello attuale la penisola italiana ebbe altri nomi: Tirrenia, Ausonia, Opica, Esperia ed Enotria. In seguito prevalse il nome di Italia derivante, sembra, da un vocabolo umbro “vitlus”, che vuol dire vitello. E questo per significare l’abbondanza del bestiame bovino nel paese.
Dapprima si chiamò Italia solo la punta estrema dell’attuale Calabria, i cui abitatori si chiamarono Itali; poi, quando Roma conquistò l’intero paese, il nome si estese a tutta la penisola.
Dai ritrovamenti fatti in diverse caverne si potè dedurre che il paese fu abitato sin dalle epoche più remote ed i resti dei villaggi su palafitte, rinvenuti specialmente nella Valle Padana, diedero la possibilità di farsi un’idea delle abitazioni di quei popoli. Ma notizie precise dei popoli della preistoria non sono giunte fino a noi.
Invece molto documentati sono i passaggi di tutte le popolazioni più civili che vissero in Italia nell’antichità, prime fra tutte quelle degli Etruschi, che si stabilirono nell’attuale Toscana.
Nell’VIII secolo avanti Cristo, molto prima della fondazione di Roma, abitarono l’Italia molte popolazioni dalle origini più diverse. Nel Lazio, dal latino “Latium”, cioè luogo aperto, regione situata lungo il corso inferiore del Tevere, si stabilirono i Latini. E poi ancora si ebbero i Liguri, i Sardi, i Siculi, gli Apuli, i Veneti, gli Umbri, gli Equi, gli Osci, i Rutuli, i Volsci, i Sanniti, i Bruzzii ed i Sabini.
I fondatori di Roma (753 avanti Cristo) furono, appunto, chiamati Romani. Essi conquistarono tutta l’Italia: i Volsci, gli Equi e gli Etruschi nel V secolo avanti Cristo; i Sanniti nel IV ed i Greci della Magna Grecia nel III.
Con le successive vittorie sui Galli (222 avanti Cristo) e sui Cartaginesi (201 avanti Cristo) i Romani, poi, si spinsero fino in Sicilia, Sardegna e Corsica. Da allora e fino al 476 dopo Cristo, data della caduta dell’impero romano, la storia d’Italia si identifica con quella di Roma, che fu gloriosa e che portò la sua grande potenza in gran parte del mondo allora conosciuto.
Con la caduta dell’impero romano, la penisola italiana fu sottoposta alle invasioni barbariche, iniziate sin dal IV secolo dopo Cristo. Dal 476 al 493 fu governata da Odoacre, re degli Eruli; dal 493 al 526 governò Teodorico, re degli Ostrogoti ed i suoi successori.
Nel 553 Giustiniano, imperatore di Bisanzio, liberò l’Italia dai barbari Ostrogoti, ma dopo soli 15 anni arrivarono i Longobardi che portarono alla divisione della penisola in due parti: una sotto i Longobardi ed una sotto i Bizantini. E così rimase per più di un millennio.
L’Italia divenne terra di conquiste. Nell’VIII fu teatro di una lunga guerra fra longobardi e franchi (abitatori dell’attuale Francia) che nel 774 conquistarono la parte centro-settentrionale. Dall’800 all’814 questi territori fecero parte del Sacro Romano Impero fondato da Carlo Magno, re dei franchi. Dall’827 all’878 ancora una invasione straniera si ebbe in Sicilia, che cadde in mano agli Arabi, provenienti dall’Africa e vincitori sui bizantini.
Così verso la fine del IX secolo l’Italia si trovò divisa fra longobardi, che occupavano il Ducato di Benevento, Franchi, Arabi e Bizantini, che possedevano ancora alcuni porti della Puglia, la Calabria ed il Ducato di Napoli. Inoltre c’era lo stato della Chiesa che dominava le zone corrispondenti alle attuali Umbria, Marche e Lazio.
Alla morte di Carlo Magno, avvenuta nell’814, tutta la zona compresa nel Sacro Romano Impero divenne indipendente e costituì il Regno d’Italia.
Per 74 anni alla guida di questo regno si alternarono dei grandi feudatari italiani ma nessuno di loro riuscì mai ad avere la supremazia sugli altri e, spesso, ancora divisi in piccoli feudi, combatterono fra loro indebolendosi sempre più. Ciò convinse l’imperatore di Germania, Ottone I, a varcare le Alpi con un grosso esercito per occupare il Regno. E nel 962 si fece incoronare imperatore del Sacro Romano Impero Germanico e re d’Italia.
Poco dopo l’anno 1000, nel meridione della penisola si costituì un altro grande impero, quello dei Normanni, che cacciando via i longobardi, i bizantini e gli arabi, conquistarono la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania.
Ma questi imperatori tedeschi, dovendosi occupare degli affari dei loro paesi, non poterono prestare sempre tanta attenzione al regno d’Italia. Ne approfittarono alcune città del nord per liberarsi dallo straniero e crearono degli enti, che chiamarono “Comuni”, decisi a lottare fino alla morte per ottenere l’indipendenza.
Nel XII secolo i comuni riuscirono nell’impresa. Famosissima fu la battaglia di Legnano del 1176 combattuta e vinta contro Federico Barbarossa, imperatore di Germania.
Nel 1186 Barbarossa riuscì a realizzare il matrimonio fra suo figlio Enrico e la principessa Costanza, unica erede del Regno Normanno. Quattro anni dopo, alla morte del padre, Enrico assunse il titolo di Imperatore di Germania e Re di Sicilia e di Puglia.
Il dominio germanico durò fino al 1266 quando Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, si impadronì dei regni di Sicilia e di Puglia, scalzando i normanni. Ma gli angioini non furono buoni governanti e ben presto si creò un ampio malcontento fra il popolo, specialmente in Sicilia. E nel 1282 a Palermo scoppiò una grande insurrezione di popolo, passata alla storia col nome di “Vespri Siciliani”, perché esplosa nell’ora del vespro. Ben presto questa rivolta assunse un vero e proprio carattere di guerra. I siciliani chiesero aiuto agli Aragonesi i quali sì aiutarono a cacciare i francesi ma ne occuparono il posto. La Sicilia si trovò nuovamente sotto il dominio di un altro straniero.
Intanto i comuni, dopo aver vinto la lotta contro lo straniero germanico, caddero preda di lotte intestine, sempre per la sete di potere. Famiglie dello stesso comune combattevano fra di loro per il possesso delle più alte cariche, Ne derivò un grandissimo disordine ovunque. Per ovviare a questo stato di cose si decise di affidare il governo di ciascuno di questi comuni ad un solo uomo, purchè integro e carismatico, il quale, con l’andar del tempo, fu chiamato “Signore” e, di conseguenza, i comuni divennero “signorie”, ovvero piccole monarchie assolute che divennero vere e proprie monarchie. Fra le più importanti famiglie di Signori si ebbero i Visconti e gli Sforza a Milano, dei Medici a Firenze e dei Savoia in Piemonte. E siccome alcuni di questi signori riuscirono ad ottenere il titolo di “Principe”, le signorie si trasformarono in “Principati”.
A Napoli, intanto, nel 1435, dopo un ventennio di regno, moriva Giovanna II, della casa d’Angiò, senza lasciare eredi al trono. Subito si scatenò una dura lotta fra due contendenti: Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona.
Quest’ultimo, aiutato dal Duca di Milano, Filippo Maria Visconti, sconfisse gli angioini ed occupò Napoli nel 1442. Nel regno di Napoli quindi ai francesi si sostituirono gli spagnoli.
Verso la fine del XV secolo l’Italia era divisa in due parti: una parte sotto il dominio straniero e l’altra composta da tanti piccoli stati, spesso in guerra fra loro.
Ma a questa certamente non invidiabile situazione politica si oppose, invece, quella culturale che portò l’Italia in testa a tutti gli altri stati europei. Nella letteratura, fulgidissima stella fu Dante Alighieri, con Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, oltre a tanti altri vati minori. Nelle arti figurative eccelsero Cimabue, Giotto, Masaccio, Donatello, il Perugino e Michelangelo Buonarroti, ed il sommo Leonardo da Vinci. Nel campo delle esplorazioni rifulse il nome di Cristoforo Colombo. Inoltre, grazie ai fiorenti commerci praticati dalle ricche Repubbliche Marinare di Venezia, Genova, Pisa ed Amalfi, costituitesi nel X secolo, e dalle banche di Milano e Firenze, l’Italia fu uno dei paesi più ricchi d’Europa.
La situazione politica dell’Italia in quei tempi fu, come detto, nettamente negativa. Non sfuggì, quindi, all'allora re di Francia, Carlo VIII, la possibilità di conquistare la penisola con facilità e poter guadagnare uno sbocco sul Mediterraneo.
Nel 1494, con la complicità di tutti i capi degli stati italiani del centro-nord, che appunto non opposero alcuna resistenza, e con il pretesto di voler riconquistare il regno di Napoli, entrò in Italia e l’anno successivo, quasi senza incontrare ostacoli, riuscì nell’impresa.
Mentre Ferdinando d’Aragona si rifugiava ad Ischia, alcuni principi italiani, convinti ormai di non aver dato prova di decoro e di carattere allorchè fecero transitare Carlo VIII, decisero di unirsi in una lega per cacciarlo dal territorio con tutti i suoi soldati. Il re francese, valutata la situazione, decise di abbandonare il campo e riprese la via del ritorno.
A Fornovo, sul Taro, nel 1495 gli eserciti si scontrarono e dopo una durissima battaglia, vinta dai francesi, Carlo VIII riuscì a passare ed a ritornarsene in Francia. Intanto Ferdinando d’Aragona aveva ripreso il trono di Napoli.
Alla morte di Carlo VIII, avvenuta nel 1498, il suo successore Luigi XII, visto che la lega dei principi italiani si era sciolta, ritentò l’impresa. E questa volta però scese in campo direttamente la Spagna che ebbe la meglio. La situazione che ne derivò fu che il regno di Napoli era saldamente nelle mani degli spagnoli mentre il Ducato di Milano, scacciato Ludovico Sforza, detto il Moro, fu saldamente nelle mani dei francesi.
Nel 1559 Francia e Spagna stipularono a Cateau-Cambresis un trattato di pace a seguito del quale i due terzi dell’Italia passarono nelle mani degli spagnoli.
Durante la dominazione spagnola, la peggiore mai sopportata, Napoli fu sempre in mezzo ad epidemie, carestie, miserie e malgoverno. Molte furono le rivolte popolari; quella più violenta si verificò nel 1647 e fu crudelmente sedata.
Intanto che si susseguivano questi avvenimenti un altro stato italiano, il Ducato di Savoia, comprendente il Piemonte e la Savoia, si era sempre mantenuto autonomo. Ebbe degli ottimi sovrani, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo II. Quest’ultimo ingrandì il suo stato ed ottenne nel 1720 il titolo di re di Sardegna.
Nella prima metà del XVIII secolo l’Europa fu sconvolta da molte guerre, in cui presero parte gli stati più potenti d’allora:Spagna, Francia, Polonia, Inghilterra, Olanda e Russia. Alla fine di queste guerre, nel 1748, l’Italia fu quasi interamente sotto il dominio austriaco. Quella meridionale e la Sicilia passarono ai Borboni. L’unico stato che si mantenne indipendente fu il regno di Sardegna, composto dalla Sardegna, il Piemonte e la Savoia.
Sul finire del XVIII secolo un grande avvenimento sconvolse la Francia: la Rivoluzione Francese. Nacque dalla grave situazione in cui si trovava il popolo, vessato dalla nobiltà e mal governato da una inetta monarchia. E questa rivoluzione che predicò la fratellanza, l’uguaglianza e la libertà, fu anche il faro che risvegliò i desideri di libertà di molti popoli sottomessi e repressi in tutto il mondo.
La storia di Francia, dopo il periodo dei disordini, delle decapitazioni, di Robespierre, vide rifulgere una stella di inusitata grandezza: Napoleone Bonaparte. Giovane generale corso, dopo aver condotto e vinto molte guerre in Europa, conobbe poi la sconfitta nel 1815 ad opera delle potenze d’Austria, Inghilterra, Prussia e Russia. Queste decisero di dare un nuovo assetto all’Europa. E per quanto riguardò l’Italia, essa si ritrovò ancora una volta divisa in tanti piccoli stati tutti sottomessi, direttamente o no, all’Austria. Il Lombardo-Veneto fu considerato addirittura territorio austriaco.
Ma l’Austria, però, non tenne conto che i tempi, specialmente con i dettami della Rivoluzione Francese, erano molto cambiati ed i popoli volevano essere liberi. Così i patrioti italiani, non potendosi esprimersi apertamente, pena le gravissime ritorsioni della polizia austriaca, formarono delle associazioni segrete, fra le quali le più note furono la “Carboneria” e la “Giovine Italia”, quest’ultima fondata dal patriota genovese Giuseppe Mazzini.
Dal 1820 al 1844 gli adepti delle società segrete inscenarono molte manifestazioni e rivolte. Tutte domate e molti dei responsabili catturati furono condannati a morte. Gli italiani si convinsero sempre di più che bisognava liberare l’Italia dagli austriaci. Il 4 marzo 1848 una svolta decisiva si ebbe nella storia d’Italia. Carlo Alberto, re di Sardegna, oltre a concedere la Costituzione, decise anche di porsi alla testa di un esercito per combattere gli austriaci.
Quello era l’anno in cui molte rivolte popolari si registrarono in Europa, sia per l’autonomia che per una più ampia partecipazione al governo dei loro stati. Nel pomeriggio del 17 marzo 1848 giunsero a Milano gli echi dei moti verificatisi a Vienna. I patrioti milanesi, che già da tempo stavano organizzando una rivoluzione, capirono che il momento era propizio e decisero che il giorno seguente si sarebbero raccolti per una iniziale dimostrazione, davanti al Palazzo del Governo, in Via Monforte. Le guardie, all’arrivo dei dimostranti, spararono su di loro nell’intento di intimidirli e di farli retrocedere. Non fu così, anzi, quell’episodio diede l’avvìo ad una vera e propria guerra, combattuta con pochi mezzi ma con tanta determinazione dal popolo milanese, contro un organizzatissimo e preponderante esercito austriaco. Cinque furono le famose giornate di Milano; al termine di esse gli austriaci, comandati dal generale Radetzky, abbandonarono Milano ai milanesi. Ed il 23 marzo, all’indomani delle 5 giornate di Milano, Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria.
Per l’occasione Giuseppe Mazzini rientrò in patria dal Sud America con un gruppo di volontari e tutto fu pronto per la riscossa. Che non ci fu. L’Austria era troppo potente e ad un anno esatto dall’inizio della guerra, il 23 marzo 1849 Carlo Alberto, dopo aver subìto una grave sconfitta a Novara, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II, ed andò in esilio ad Oporto nel Portogallo, dove rimase fino alla morte. Gli austriaci rientrarono da padroni nel Lombardo-Veneto. Bisognò ricominciare tutto da capo.
Il nuovo re, coadiuvato dal suo abilissimo ministro Camillo Benso conte
di Cavour, che veramente fu l’artefice dell’unità d’Italia, lavorò
indefessamente per un decennio e finalmente, all’inizio del 1859, si riuscì
a raggiungere l’alleanza con Napoleone III, imperatore dei francesi. Il
29 aprile 1859 iniziarono le operazioni militari contro gli austriaci,
che furono nettamente battuti. L’11 luglio 1859 veniva firmato l’armistizio
di Villafranca col quale la Lombardia veniva annessa al regno di
Vittorio Emanuele II. E mentre si snodavano questi avvenimenti, un altro
fatto importante si verificò negli stati dell’Italia centrale. Anche
in Toscana e nell’Emilia-Romagna le popolazioni chiesero di far parte del
regno. Cosicchè quasi tutta l’Italia centro-settentrionale fu unificata.
Bisognava intervenire nel meridione dove sul trono delle due Sicilie
era comodamente assiso Francesco II di Borbone, che regnava sotto le direttive
dell’Austria.
Ed a questo pensò un altro grande eroe della storia, non solo d’Italia, che fu Giuseppe Garibaldi. Egli, in men che non si dica, raccolse un migliaio di volontari per imbarcarsi in quella che appunto è passata alla storia con il nome di “Spedizione dei Mille”. Con due navi, “Piemonte” e “Lomardo”, di proprietà della Società Rubattino, i Mille partirono la sera del 5 maggio 1860 alla volta della Sicilia, dove migliaia di patrioti erano già in attesa di unirsi a loro per scacciare lo straniero.
All’alba dell’11 maggio Garibaldi e le sue Camicie Rosse sbarcarono a Marsala ed iniziarono la loro marcia. Una delle più dure battaglie in questa impresa fu quella del 15 maggio a Calatafimi. Per tutto il giorno i garibaldini lottarono contro i borboni con grande accanimento ed alla sera la città era conquistata. In soli 4 mesi la Sicilia ed il Napoletano erano liberati. Visto il grande successo Vittorio Emanuele II, alla testa del suo esercito, si avviò ad occupare le Marche e l’Umbria, poi andò incontro a Garibaldi, a Teano. Il 18 febbraio 1861 fu proclamato il Regno d’Italia e Vittorio Emanuele II ne fu il re. Ma l’Italia non era tutta. Mancavano Roma, Venezia, Trento e Trieste. Roma ed il Lazio appartenevano allo Stato Pontificio mentre le tre città venete erano ancora in mano agli austriaci.
Si cercò di definire pacificamente la questione di Roma. Bettino Ricasoli, succeduto a Cavour, tentò di tutto per le vie diplomatiche, ma senza esito. Garibaldi pensò allora di partire dalla Calabria con un gruppo di volontari e puntare alla volta di Roma; ma fu fermato dal re, convinto com’era che il papa, Pio IX, avrebbe chiesto aiuto alla Francia, la quale avrebbe poi sicuramente dichiarato guerra all’Italia.
Per il Veneto, invece, l’impresa si potè compiere con meno difficoltà. L’Italia potè contare sull’aiuto della Prussia che, temendo lo strapotere dell’Austria, propose una alleanza per combattere il comune nemico. Ed il 15 giugno 1866, alla fine del conflitto, il Veneto passò nelle mani degli italiani, ma non Trento e Trieste che rimasero all’Austria.
Il 1870 fu l’anno decisivo per definire anche la questione di Roma. La Francia si era trovata in guerra con la Prussia ed aveva ritirato il suo esercito dallo Stato Pontificio. A Vittorio Emanuele II sembrò una magnifica occasione per tentare la conquista di Roma. Infatti gli riuscì poiché Pio IX non volle che si spargesse inutilmente del sangue e, dopo una lieve resistenza, cedette all’esercito del re. Il 20 settembre 1870 Roma fu proclamata capitale d’Italia.
I tre grandi personaggi del Risorgimento Italiano, oltre naturalmente a Cavour, morirono: Mazzini nel 1872, Vittorio Emanuele II nel 1878 e Giuseppe Garibaldi nel 1882.
Al trono d’Italia salì Umberto I che si trovò subito a fronteggiare una difficile situazione economica, creata dalle continue guerre. Così, viste le imprese delle altre nazioni europee, anche lui assecondato dai suoi ministri, iniziò le conquiste coloniali. Fu così che nel 1885 venne l’Eritrea e nel 1889 la Somalia. Almeno economicamente si ebbe un po’ di respiro in quanto molti cittadini, senza lavoro in patria, si trasferirono nelle colonie, dove si avviarono anche industrie e commerci.
Dal 1903 al 1914 l’Italia, guidata dall’abile ministro Giovanni Giolitti, conobbe un buon periodo di prosperità. Nel 1912, a seguito di una guerra vittoriosa contro i turchi, l’Italia si trovò ancora un’altra colonia: la Libia.
E nel 1914 in Europa scoppiò la prima guerra mondiale. L’Italia, dapprima si dichiarò neutrale ma poi, vista la possibilità di conquistare Trento e Trieste, entrò in guerra contro l’Austria. Dopo tre anni di dure lotte e con la perdita di molte vite umane, l’Italia fu tra i vincitori e col Trattato di Versailles del 1919 potè riavere il Trentino,l’Alto Adige, Trieste e l’Istria. E questo fece dell’Italia uno stato veramente unito, libero ed indipendente.
Naturalmente, però, questa lunga guerra aveva indebolito l’economia del paese, che fu teatro di scioperi ed agitazioni finchè nel 1922 si fece avanti un uomo che dichiarò di essere in grado di ristabilire l’ordine ed il benessere. Quest’uomo era Benito Mussolini, ex socialista, che aveva fondato un suo partito: il “fascismo”. Egli ebbe, dall’allora re Vittorio Emanuele III, l’incarico di formare un governo e ben presto Mussolini mostrò le sue vere intenzioni, quelle cioè di governare il paese da dittatore. Nazionalista ad oltranza, si liberò di tutti i suoi rivali politici, si isolò anche economicamente da altri paesi, proclamando l’autarchia. Una delle imprese di questo tipo fu la famosa “battaglia del grano”, iniziata allo scopo di migliorare ed aumentare la produzione, per essere autosufficienti.
Nel 1936 iniziò una politica di espansione territoriale andando ad occupare l’Etiopia e nel 1939 invase l’Albania. Vittorio Emanuele III fu così Re d’Itallia e d’Albania ed Imperatore di Etiopia. In realtà fu un individuo piuttosto maneggevole, incapace di contrastare il dittatore che, quindi, fece il bello ed il cattivo tempo. E quando nel 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale, Mussolini volle che l’Italia si alleasse con la Germania di Hitler, anche lui dittatore tristemente noto. Questa alleanza fu la rovina dell’Italia. Alla fine del disastroso ed inumano conflitto l’Italia, sottoposta anche alla dominazione nazista, sconfitta, mezzo distrutta dai bombardamenti, piena di miseria, di disoccupati e di tanti altri mali, perse tutte le colonie e dovette cedere buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Dal 1946 a seguito di un referendum popolare, l’Italia divenne una Repubblica Democratica.
Capo provvisorio dello Stato fu Enrico De Nicola. Il 12 luglio 1946 l’incarico di formare il governo fu affidato ad Alcide De Gasperi, che ne varò uno di coalizione fra i tre partiti maggiori, il democristiano, il socialista ed il comunista, con l’adesione del repubblicano storico.
In realtà si formarono subito due blocchi contraddistinti, da una parte la Democrazia Cristiana e dall’altra i comunisti, mentre i socialisti, che pure si erano rivelati come il secondo partito della nazione, dovettero contentarsi di un ruolo secondario, alle dipendenze quasi del partito comunista. Ciò non piacque ad alcuni adepti i quali contrastarono la politica del loro leader, Pietro Nenni, ed operarono una scissione. Nacque così il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, guidato da Giuseppe Saragat.
De Gasperi, nel gennaio 1947, fece un viaggio negli Stati Uniti ed al suo ritorno si dimise. Nel febbraio ebbe di nuovo l’incarico per formare un nuovo gabinetto. Chiese quindi l’adesione di Saragat. Ma non avendola ottenuta ripetè le dimissioni. Nel maggio, poi, riuscì a formare un governo tutto democristiano con qualche indipendente, e vice-presidente del consiglio fu Luigi Einaudi. Poi il partito di Saragat ed i repubblicani, nel dicembre del 1947, entrarono nel governo ed a coadiuvare Einaudi intervennero anche i loro leader Saragat e Pacciardi.
Il 22 dicembre 1947 fu approvata la nuova Costituzione, firmata il 27 da Enrico De Nicola, che da provvisorio divenne il definitivo Presidente della Repubblica. Il giorno 28 l’ex re Vittorio Emanuele III moriva ad Alessandria d’Egitto.
L’Italia si buttò a capofitto nella ricostruzione del paese, che procedette con alacrità e successo, anche per effetto dei continui e sostanziali aiuti americani. Ma intanto si imbastiva la Conferenza di Pace, alla quale l’Italia non solo non fu ammessa ma, nonostante tutti i grandi sforzi diplomatici sostenuti da De Gasperi, ricevette un trattamento piuttosto punitivo. Si dovettero consegnare alla Jugoslavia, protetta dalla Russia, delle città italianissime come Pola, Rovigno e Parenzo, Fiume e Zara. Trieste, poi, fu proclamata “Territorio Libero”. Alla Francia furono ceduti il Moncenisio, Briga e Tenda. Il Dodecanneso tornò alla Grecia. L’Italia dovette anche risarcire i danni di guerra alla Jugoslavia ed all’Albania, senza ottenere alcun riconoscimento al contributo dato con le lotte partigiane e con i sacrifici immensi che il popolo italiano dovette subire dopo aver rovesciato il fascismo ed aver sopportato la dominazione nazista.
Le elezioni del 18 aprile 1948 diedero la maggioranza assoluta alla Democrazia Cristiana. A maggio Einaudi divenne Presidente della Repubblica e De Gasperi formò il nuovo governo, press’a poco come quello precedente. Il 1948 si chiuse senza grandi sovvertimenti. Unico episodio di rilievo fu l’attentato a Palmiro Togliatti, leader del partito comunista, avvenuto il 14 luglio 1948. E poi trattati commerciali e di amicizia furono conclusi con altri paesi.
Il 4 aprile 1949 l’Italia firmò il suo ingresso nel Patto Atlantico. In base a ciò si potè chiedere la soluzione di alcuni problemi rimasti sul tappeto dalla fine della guerra; primo fra tutti quello di Trieste e poi quello delle colonie. Dopo molte trattative, l’Italia ottenne solo l’amministrazione della Somalia per dieci anni.
Il 14 gennaio 1950 si ebbe una crisi di governo a causa di contrasti intervenuti fra le correnti di sinistra e di destra della stessa Democrazia Cristiana. Il nuovo governo fu un “tripartito” di centro-sinistra, tutto teso verso importanti riforme sociali. Per il miglioramento dell’economia in meridione si istituì la “Cassa per il Mezzogiorno”.
Nel gennaio 1951 elementi di crisi intervennero all’interno del partito socialista italiano. Quello dei lavoratori italiani si unì al partito socialista unitario, formatosi in precedenza, e cambiò nome assumendo quello di Partito Socialista Democratico Italiano. Dopo questa unione uscì dal governo. De Gasperi avrebbe dovuto sciogliere il gabinetto ma, in considerazione della prossimità delle elezioni amministrative del futuro maggio-giugno, operò un semplice rimpasto e condusse in porto la legislatura. Alle amministrative del giugno 1951 la Democrazia Cristiana subì un ridimensionamento mentre i partiti di estrema destra e di estrema sinistra registrarono un certo sviluppo. Il governo che ne derivò fu di una alleanza democratica.
Nel giugno 1952 al vertice del neo partito socialista fu eletto Giuseppe Romita mentre nello stesso anno l’Italia firmò a Lisbona un trattato per la “Comunità Europea di Difesa” e poi un patto tripartito con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che consentì l’ingresso di alcuni amministratori italiani nel territorio libero di Trieste, in vista di un prossimo rientro della città alla madrepatria. Verso la fine di quell’anno si cominciarono a sentire gli effetti di tutte le riforme sociali portate a termine da De Gasperi. Egli, però, terminate le elezioni amministrative del 1953, battuto dovette essere sostituito da Attilio Piccioni. Ma anche lui non riuscì a formare il governo. Ed allora nell’agosto Einaudi affidò il nuovo incarico a Giuseppe Pella, Ministro del Bilancio, il quale formò un governo di “tecnici”, appoggiato da alcuni indipendenti qualificati. De Gasperi che, nel frattempo, era divenuto Segretario del Partito, suggerì a Pella i nomi dei ministri che avrebbero dovuto essere presenti nel governo e poiché Pella non accettò questi suggerimenti il governo cadde il 4 gennaio del 1954. Ancora un esponente della Democrazia Cristiana fu chiamato a formare il nuovo governo; questi fu Scelba che ne formò uno “quadripartito” facendovi confluire i 4 partiti di centro.
Nel giugno 1954 a Napoli fu indetto il Congresso della Democrazia Cristiana che assegnò la Segreteria del partito ad Amintore Fanfani. De Gasperi, divenuto da poco Presidente del Consiglio Nazionale del Partito, il 19 agosto 1954 morì. Nel settembre il governo subì un’altra crisi, dovuta alle forzate dimissioni del Ministro degli Esteri, Piccioni, e Scelba dovette operare un rimpasto e nell’ottobre Trieste tornò all’Italia, cosicchè la coalizione governativa di centro si rafforzò.
Nell’aprile del 1955 si svolsero nuove elezioni presidenziali e Giovanni Gronchi, esponente della sinistra democristiana fu eletto Presidente. Il governo Scelba fu dimissionario e nuovo incaricato fu un altro democristiano Antonio Segni. Durante il suo governo si conobbe un periodo di tranquillità e nel dicembre 1955 l’Italia entrò a far parte delle Nazioni Unite.
Intanto all’interno del paese si andò delineando una migliore intesa fra i partiti di centro, mentre gli oppositori subirono una certa regressione, sia a destra che a sinistra. Fra il partito comunista e quello socialista si venne delineando una insanabile frattura dopo gli avvenimenti d’Ungheria.
Nel maggio 1957 ci fu una improvvisa crisi e Saragat uscì dal governo, seguito dai repubblicani. La legislatura fu comunque portata a termine da un gabinetto monocolore. Nello stesso anno a Roma veniva firmato un trattato per la istituzione della “Comunità Economica Europea”.
La Democrazia Cristiana alle elezioni del maggio 1958 risultò notevolmente rafforzata e Fanfani formò il nuovo governo di coalizione. In politica estera in quel periodo l’Italia vide aumentare il suo prestigio per aver condotto buone mediazioni specialmente negli affari riguardanti il Medio Oriente. Ma all’interno, sopraggiunte alcune difficoltà, il 26 gennaio 1959 il governo si dimise ed Antonio Segni fu chiamato a formarne un altro che fu varato tutto democristiano a larga maggioranza, perché potè contare sul sostegno dei liberali e delle destre. Pella tornò con l’incarico di Ministro degli Esteri e ribadì la presenza dell’Italia nella politica atlantica. Intanto la Democrazia Cristiana, dopo un suo Congresso, aveva nominato segretario generale Aldo Moro, con l’appoggio di Giulio Andreotti e di Antonio Scelba.
Nel febbraio 1960 i liberali tolsero il loro sostegno al governo Segni e questi fu costretto a dimettersi. I gruppi democratici però si affrettarono a sostenere ancora un governo monocolore democristiano, nuovamente presieduto da Fanfani.
Nel novembre 1960 il ritorno alla democrazia fu confermato dalle elezioni amministrative.
Nell’anno 1961 il governo dovette affrontare vari problemi collegati al miglioramento dell’economia e delle riforme sociali. Doveva essere portata avanti l’attuazione delle regioni, la revisione dei patti agrari, legiferare per l’urbanistica e le aree fabbricabili ma in modo particolare bisognava considerare la nazionalizzazione della energia elettrica, insistentemente chiesta dai socialisti. Nel 1962, scaduto il mandato di Giovanni Gronchi, fu eletto Presidente della Repubblica Antonio Segni.
Per il 28 aprile 1963 furono indette le elezioni politiche ed il partito comunista registrò un milione di voti in più rispetto a quelle precedenti. La sola formula valida fu quella di centro-sinistra, composta dai tre partiti della coalizione più i socialisti. Il segretario della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ebbe l’incarico. Ma egli non raggiunse il consenso necessario ed allora fu chiamato alla prova il Presidente della Camera, Giovanni Leone, che ottenne la fiducia al governo monocolore democristiano. Dimessosi Leone il governo tornò nelle mani di Aldo Moro.
Nel gennaio 1964 un’altra scissione avvenne nelle file del partito socialista; 25 deputati della Camera, capeggiati da Basso, Velori e Vecchietti, diedero vita ad un altro partito che si chiamò Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.
Il governo si mise subito all’opera per attuare il programma da lungo tempo delineato, ma una improvvisa recessione arrivò a distruggere il miracolo economico verificatosi in quegli anni. Varie furono le cause: fra di esse si notarono la grande richiesta dei beni di consumo, conseguenza dei grandi aumenti salariali, e le ventilate nazionalizzazioni delle aziende, come già per l’energia elettrica. Moro fu costretto a rimandare le riforme previste per occuparsi di problemi più immediati e questo provocò contrasti all’interno che riportarono alla luce i dissensi dei socialisti.
A giugno una richiesta di approvazione al Parlamento di un capitolo di spesa a favore della scuola media privata non passò per l’astensione del socialista Lombardi e tre altri partiti laici, e Moro presentò le sue dimissioni.
Nella seconda metà di luglio la crisi fu risolta e Moro formò un altro governo. Questo riprese i lavori per superare la congiuntura economica e nel settembre si approvò la legge sui patti agrari. In agosto sopraggiunse un altro importante problema: il presidente Segni fu colpito da paralisi; bisognò prendere subito dei provvedimenti. Intanto in maniera provvisoria fungeva da presidente l’on. Merzagora, presidente del senato. Quindi iniziarono i lavori e dopo vari scrutini venne eletto Saragat. Fanfani passò agli esteri e Mariano Rumor alla segreteria della Democrazia Cristiana.
Nel 1966 ancora un governo Moro guidava il paese e l’economia accennava a riprendersi. A marzo 1967 fu varato un piano quinquennale con un programma di riforme e nel 1968 fu approvata una legge elettorale dei consigli regionali. Ma proprio in questi due anni si ebbe una clamorosa rivolta studentesca che coinvolse poi nella protesta tutto il sistema. Il famoso “sessantotto” che avversò non solo il sistema scolastico ma anche quello sociale, giuridico e parlamentare, nonché la lentezza burocratica in tutte le istituzioni. A maggio 1968 le elezioni avevano segnato un calo nei partiti di coalizione ma la delusione più forte era stata per i socialisti che l’anno precedente si erano unificati.
Solo la Democrazia Cristiana ed i comunisti erano stati soggetti ad un lieve aumento di voti. Fu costituito un ministero monocolore provvisorio guidato ancora una volta da G. Leone, che poi si sciolse per dare vita ad un governo di collaborazione ministeriale guidato da Rumor, con De Martino vice-presidente e Nenni agli Esteri. Rumor cercò subito di avviare un vasto piano di riforme e per prima cosa il primo marzo 1969 ordinò alla forza pubblica di sgomberare l’Università di Roma, occupata dagli studenti, poi lavorò sulla occupazione, sulla riforma universitaria e sul miglioramento delle pensioni. In campo internazionale l’atto più importante fu la firma del trattato di “non proliferazione nucleare” alla Conferenza di Ginevra.
Intanto nel partito socialista unificato si andavano formando delle fratture fra i gruppi degli ex socialdemocratici, timorosi di sopraffazioni organizzative da parte dei socialisti.
Nel 1969 si concluse l’accordo per l’Alto Adige con l’Austria, dopo anni di disaccordo e di terrorismo. L’Alto Adige divenne una regione autonoma. Sempre verso la fine del 1969 si ebbe il cosidetto “autunno caldo”, in cui scioperi disastrosi e agitazioni sindacali infinite crearono un clima talmente esplosivo che, infatti, sfociarono in attentati, quali quello di “Piazza Fontana” a Milano, in cui morirono 17 persone e che per anni ed anni ha tenuto impegnati i magistrati nel tentativo di condannare i veri colpevoli.
Rumor formò il suo terzo governo, dopo le elezioni politiche del marzo 1970, con i socialdemocratici, i socialisti ed i repubblicani. A giugno si ebbero le regionali che furono favorevoli al centro-sinistra. Ma ancora dissidi fra i partiti costrinsero a luglio Rumor alle dimissioni. Arrivò alla Presidenza del Consiglio, Emilio Colombo, già Ministro del Tesoro, alleato politico di Giulio Andreotti. Nel dicembre 1971 fu eletto Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Colombo si dimise. Prese il suo posto Andreotti ma nel febbraio 1972, a seguito di una sfiducia, fu costretto anche lui a dimettersi. Si ebbero nuove elezioni a maggio e questa volta Andreotti potè formare, a giugno, un governo detto di “centralità democratica”, insieme a socialdemocratici, liberali e con l’appoggio esterno dei repubblicani. Si diede il via ad un ampio programma inteso a risolvere tutte le questioni economiche rimaste fino ad allora insolute. Ma a queste difficoltà economiche frattanto se ne erano aggiunte altre di ordine pubblico. La violenza di destra esplodeva a Milano mentre quella di sinistra esplodeva alla conclusione del Congresso del Partito Socialista, tenuto a Genova nel novembre 1972. La crisi governativa fu inevitabile, il governo cadde. Il nuovo incarico fu affidato a Rumor ed il suo quarto ministero comprese democristiani, socialdemocratici, socialisti e repubblicani. I liberali passarono all’opposizione.
Intanto alla direzione del partito comunista era assurto il giovane segretario Enrico Berlinguer. Anch’egli annunciò la sua opposizione al governo, chiamandola, però, “flessibile”, cioè più elastica, da esercitare a seconda dei problemi che venivano proposti. E quella fu l’epoca del noto “compromesso storico” in quanto il partito comunista decise, ogni giorno di più, di applicare una politica volta ad una più stretta collaborazione di governo, purchè di sinistra. Si verificò una certa ripresa economica. Ci fu il recupero della lira, un miglioramento nella produzione industriale, ma l’edilizia ed i problemi connessi con il Mezzogiorno frenarono le azioni del governo che così entrò in crisi, anche per contrasti interni, che decretarono il ritiro dei repubblicani dal ministero.
Nel marzo 1974 la crisi fu superata e Rumor potè avviare il suo quinto governo. In quell’anno successero due fatti importanti: si approvarono i finanziamenti pubblici ai partiti e la legge Fortuna-Baslini per l’istituzione del divorzio. La strage terroristica di Brescia del 1974 costrinse ancora una volta il governo a dimettersi. Leone respinse le dimissioni di Rumor e lo invitò a cercare un altro compromesso per portare a termine la legislatura. Così avvenne. Nel corso dello stesso anno il governo approvò l’aumento del costo della benzina, ciò che provocò infinite reazioni. Berlinguer revocò la “flessibilità” e l’opposizione riprese la linea dura. La situazione era insostenibile e fu inevitabile indire elezioni anticipate. Si era aperta una delle crisi più lunghe di governo.
Il 29 ottobre 1974 l’incarico fu affidato a Moro che formò un governo bicolore, democristiani più repubblicani, sorretto però dalla maggioranza dei 4 partiti. Sommerso da difficoltà di ogni genere, questo governo per prima cosa istituì un Ministero Autonomo per i Beni Culturali ed Ambientali, in modo che si potesse recuperare l’ingente patrimonio artistico del paese che da lunghi anni era nel più assoluto abbandono. Poi autorizzò molti aumenti in ogni settore del mercato, dai beni di consumo alle tariffe elettriche, postali e telefoniche. Inoltre fu necessario porre un freno alla criminalità dilagante e quindi si dovettero rivedere le disposizioni sull’ordine pubblico. Il tutto mentre il partito comunista ribadiva la necessità di attuare il “compromesso storico”.
In tutte le regioni interessate dalle varie elezioni si ebbe una notevole flessione dei partiti di governo ed una aumentata tendenza a sinistra. Moro continuò a governare in un clima di grande incertezza, fino all’inizio del 1976 quando il partito socialista gli tolse l’appoggio. Fu costretto quindi a formare di nuovo un monocolore che ebbe la fiducia del Parlamento. Ma la situazione fu sempre precaria. Tutti gli sforzi fatti per ristabilire l’ordine pubblico furono vani e disordini vari, atti di terrorismo e contestazioni vanificarono il lavoro del governo e Moro rinunciò. Furono necessarie elezioni anticipate che, però, avendo messo in evidenza una forte flessione in tutti i partiti intermedi non consentirono più una maggioranza dei partiti di centro. Andreotti fu il premier incaricato ed egli formò un monocolore, senza la maggioranza, e si apprestò a governare sicuro che gli altri partiti avrebbero in ogni occasione adottato il sistema dell’astenionismo.
Il governo passò nonostante che la situazione rimanesse difficile. Però, quando nel gennaio 1978 gli astensionisti cambiarono registro e passarono all’opposizione, Andreotti non fu più in grado di governare e si dimise. Fu nuovamente incaricato Moro che, in sintonia con Berlinguer, tentò di inserire al governo l’apporto del partito comunista. Questo non gli riuscì ed a marzo ancora Andreotti riuscì a formare il nuovo governo. La mattina del 16 marzo 1978 Moro fu rapito da un gruppo terroristico chiamato “brigate rosse” che trucidarono i 5 uomini della sua scorta. Quella stessa mattina in Parlamento si votò la fiducia ad Andreotti ma non si autorizzò il governo a patteggiare con i brigatisti per il rilascio di Moro. Mentre tutti i partiti si dichiaravano orientati verso questo fermo proposito, invece Bettino Craxi, segretario generale del partito socialista, si dichiarava più propenso a trattare per salvare la vita al deputato. Per 55 giorni si attese che i brigatisti liberassero Moro ed il 9 maggio, in una strada a pochi passi dalla sede della Democrazia Cristiana, nel bagagliaio di una macchina fu rinvenuto il suo corpo esanime. Due giorni dopo, Francesco Cossiga, Ministro degli Interni dava le dimissioni.
Il caso Moro mise ancora di più in evidenza la spaccatura esistente fra socialisti e comunisti. Craxi addirittura criticò le radici del comunismo. Ed intanto le misure di austerità messe in atto dal governo stavano dando i primi frutti. In sede legislativa il 1978 fu un anno positivo: vennero varate le leggi sull’aborto, sull’equo canone, sull’abolizione dei “manicomi” e sulla riforma sanitaria. Con quest’ultima si stabiliva l’assistenza gratuita ai ceti meno abbienti e se ne affidava la gestione ad organismi che si chiamarono Unità Sanitarie Locali, dipendenti dalle regioni.
Il 15 giugno 1978 il presidente della repubblica Leone si dimise perché coinvolto in uno scandalo finanziario insieme ad altri ministri. L’8 luglio al suo posto fu eletto Sandro Pertini, antifascista schietto e leale che per molti anni aveva criticato il sistema politico ed esplicò un ruolo veramente dinamico di fare il capo dello stato. Alla fine di quell’anno i comunisti votarono contro l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo ed il governo entrò in crisi. Alla fine di gennaio 1979 Pertini incaricò in repubblicano Ugo La Malfa di formare il governo ma, non avendo avuto fortuna, si ritornò ad Andreotti. Anche lui non riuscì ed allora il presidente sciolse le Camere e si andò ad elezioni anticipate che si svolsero il 3/4 giugno 1979. Dopo diversi tentativi Cossiga potè formare il nuovo governo che fu composto da democristiani, socialdemocratici e liberali.
Ed in quel periodo in sede giuridica, pur rimanendo severe le leggi antiterroristiche, si istituiva un sistema particolare per la tutela di coloro che avessero accettato di collaborare con la giustizia: questo sistema fu detto dei “pentiti” e venne approvato nel febbraio 1980. Dopo due anni ne venne approvato un altro che si chiamò dei “dissociati”. Tutto questo fu utile per snellire molte indagini ed addivenire con una certa facilità all’arresto di pericolosi terroristi, altrimenti imprendibili.
Al Congresso della Democrazia Cristiana, tenuto nel febbraio 1980, si privilegiò l’intesa con i socialisti di Craxi, che così diventarono il perno delle alleanze giuste per governare il paese.
Il 2 agosto di quello stesso anno a Bologna si verificò un attentato dinamitardo in cui trovarono la morte 85 persone. Fu attribuito al terrorismo di destra. Cossiga poi fu accusato di favoreggiamento nei confronti del segretario della Democrazia Cristiana, Donat Cattin. Si sostenne che avesse avvertito l’interessato di una imminente cattura di suo figlio, militante nel gruppo terroristico chiamato “Prima linea”. Ma dopo essere stato prosciolto dall’accusa, Cossiga si dimise dal governo. Arnaldo Forlani, presidente della Democrazia Cristiana, fu il nuovo premier incaricato. Durante il suo governo a Torino si svolse un fatto importante nella fabbrica della Fiat. In essa si stava svolgendo uno sciopero generale in quanto la direzione aveva annunciato il licenziamento del personale in esubero. Il sindacato aveva minacciato l’occupazione della fabbrica. A quel punto, una marea di 40.000 persone dei quadri intermedi fece una marcia dimostrativa con la quale il potere sindacale fu ridimensionato e l’Azienda potè operare con più tranquillità e profitto. Il 23 novembre 1980 una immane tragedia sconvolse l’Italia e questa volta procurata da elementi naturali. Un violentissimo terremoto colpì la Campania e la Basilicata. Moltissime furono le vittime e le distruzioni, specialmente nella zona dell’Irpinia. I soccorsi arrivarono con una preoccupante lentezza e critiche severissime si levarono da ogni parte, specialmente da Enrico Berlinguer che dichiarò definitivamente chiuso il capitolo “compromesso storico” chiedendo al paese un rinnovamento democratico imperniato sul partito comunista.
Intanto la situazione interna era peggiorata. Scoppiarono scandali in cui vennero coinvolti anche i servizi segreti dello stato, poi ci furono altri attacchi terroristici ed uno in particolare fu portato contro la persona del papa Giovanni Paolo II, il 13 maggio 1981, ad opera di un terrorista turco. In queste condizioni il governo Forlani si dimise. Lo sostituì il segretario repubblicano Giovanni Spadolini, storico e giornalista di chiara fama, che dopo 36 anni riuscì a formare un governo “pentapartitico” laico,. Un successo molto importante di questo governo fu la liberazione del generale americano Dozier, rapito dalle brigate rosse. Era avvenuto il 28 gennaio 1982 e da quel momento uscirono allo scoperto molti pentiti che contribuirono, con le loro confessioni, allo smantellamento rapido di quell’esercito di terroristi. Limitati i danni dei brigatisti, il governo ebbe molte preoccupazioni per gli assassinii di mafia, il più clamoroso dei quali fu quello del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie ed un uomo della scorta.
Dopo l’alternarsi di altri due governi, brevissimi, si arrivò alle elezioni politiche del 1983 che rivalutarono sia i repubblicani che i socialisti e proprio il capo di questi ultimi, Bettino Craxi, fu il nuovo premier. Egli fece registrare la durata più lunga di un governo in Italia dalla fine della guerra. Fra i vari successi che riportò ci fu quello della revisione dei Patti Lateranensi col Vaticano. Con questa revisione, la religione cattolica non rappresentò più l’unico culto ammesso nel paese, si diede spazio ad altre confessioni. Poi si ridussero i privilegi concessi agli enti ecclesiastici, si adeguarono i matrimoni canonici alla legge civile e si concordò l’insegnamento della religione cattolica in tutte le scuole, dalla materna alle superiori. Fu però facoltà degli studenti di studiarla o di assentarsi dall’aula durante l’ora di religione, tempo che sarebbe stato impiegato in modo altrettanto proficuo.
Intanto nel 1985 Cossiga aveva rilevato Pertini alla presidenza della repubblica. E nel 1987 Craxi presentò le dimissioni del governo e la Democrazia Cristiana tornò al governo, in applicazione di una “staffetta” concordata in precedenza. Poi a giugno del 1987 ci furono nuove elezioni politiche che evidenziarono un buon aumento di voti ai socialisti. Nel nuovo governo entrarono anche gli Ambientalisti, meglio conosciuti col nome di “Verdi”. Dopo una breve alternanza con il democristiano De Mita, arrivò alla presidenza del consiglio Goria, ex ministro del tesoro nel governo Craxi. Sua maggiore preoccupazione, come il suo predecessore, fu quella di ridurre il più possibile il deficit pubblico. Anche il governo Goria ebbe vita breve e fu riproposto De Mita. Egli nel 1988 fece approvare a larga maggioranza alcune modifiche ai regolamenti sia alla Camera che al Senato. Poi nel maggio 1989, attaccato impietosamente dal Congresso del Partito Socialista, De Mita si dimise e fu sostituito da Andreotti che formò subito un governo pentapartitico. Fra il 1989 ed il 1990 furono varate alcune importanti leggi fra cui quella della gestione degli immigrati presenti in Italia e quella che istituiva istituti di recupero per i tossicodipendenti e l’introduzione di pene e multe non solo agli spacciatori ma anche ai consumatori.
Nel gennaio 1991, come membro delle Nazioni Unite, l’Italia partecipò alla Guerra del Golfo contro l’Iraq. Il 3 febbraio si verificò una scissione nel partito comunista che Achille Occhetto, allora segretario, aveva deciso di chiamare Partito della Sinistra. Molti adepti non furono d’accordo, si dissociarono e fondarono un loro partito che si chiamò “Rifondazione Comunista”, capeggiato da Fausto Bertinotti.
Il presidente della repubblica Cossiga, intanto, esplicava una vera e propria attività politica occupandosi di vari problemi relativi alla Magistratura, che riteneva troppo politicizzata; ebbe molti conflitti con i vari partiti e sollecitò il governo ad apportare degli emendamenti alla Costituzione in modo che si potesse renderla più attuale ed effettivamente operante. Le riforme auspicate non si fecero e, con la caduta del governo, si andò ad elezioni anticipate che si svolsero nell’aprile del 1992. L’evento principale fu l’assegnazione di 55 seggi ai deputati della formazione politica “Lega Nord”, capeggiata da Umberto Bossi. Poi, spezzando una consuetudine in auge da anni, alla Presidenza della Camera fu eletto un democristiano, Oscar Luigi Scalfaro, al posto di un rappresentante dell’opposizione. Scalfaro però ricoprì per un tempo limitato quella carica poiché, dopo le dimissioni di Cossiga, fu chiamato, dopo molti scrutini, al Quirinale. Ed in quel periodo si verificò uno dei più grandi scandali della storia della politica italiana. E riguardò le “tangenti” che tutti indistintamente i partiti avevano percepito da enti ed aziende private. Tutto il fatto si chiamò “Tangentopoli” e la Magistratura di Milano in breve tempo si trovò oberata di lavoro, poiché il fenomeno risultò molto esteso. Mentre succedeva tutto questo, le varie associazioni di criminalità organizzata mietevano assassinii di magistrati in Sicilia, in Calabria , in Campania ed in Puglia.
Craxi risultò il deputato più colpito da tangentopoli. Un altro socialista fu chiamato a formare il nuovo governo e fu Giuliano Amato, il quale si dedicò per prima cosa al risanamento della finanza pubblica e ridusse, per questo, il numero dei ministri e dei sottosegretari. Poi aumentò le tasse sul patrimonio, ridusse l’assistenza sanitaria gratuita, privatizzò alcune industrie e banche ed infine cercò un accordo con i sindacati in modo che questi limitassero al massimo le richieste di aumenti salariali.
Fra il 18 ed il 19 aprile si svolsero alcuni referendum con i quali
si chiedevano il finanziamento pubblico ai partiti e tre Ministeri:
quello dell’Agricoltura, delle Partecipazioni Statali e Turismo e Spettacolo.
Il 22 aprile Amato rassegnava le sue dimissioni ma moltri altri personaggi
della vecchia politica scomparvero dalla scena, fra questi i più
eminenti furono Andreotti e Craxi.
L’incarico per la formazione del nuovo governo toccò a Carlo
Azeglio Ciampi, uomo di irreprensibile chiara fama, probo, onesto
e leale, che formò un governo di tecnici competenti. Il 6 maggio
il governo fu votato ed iniziò subito i lavori di risanamento economico,
ma dovette anche occuparsi dei delitti di mafia. In uno di questi si trovò
coinvolto Andreotti verso il quale fu istruito subito un processo, durato
poi anni. E non fu il solo episodio negativo della corruzione
dilagante: molte personalità furono colpite dalla Magistratura per
le loro connessioni con tangentopoli.
Nel frattempo, Martinazzoli era divenuto il segretario della Democrazia Cristiana. Egli cambiò il nome al partito riesumando l’antica definizione di Partito Popolare e col motto “rinnovare senza rinnegare” iniziò la sua opera. E per prima cosa si dichiarò in netto contrasto con la Lega Nord mentre apriva il dialogo col Partito della Sinistra.
Nel giugno 1994 si svolsero le elezioni politiche nelle quali entrò uno degli uomini più noti del paese: l’imprenditore Silvio Berlusconi. Il suo scopo principale dichiarato non fu solo quello di riformare l’economia del paese ma soprattutto quello politico. Fondò il partito che chiamò “Forza Italia” con l’intento di creare un grande centro-destra, liberista e democratico. E con l’appoggio di letterati ed eminenti uomini di cultura, in unione alla Lega Nord e ad Alleanza Nazionale, formò al nord il cosidetto “Polo delle Libertà” e a sud il “Polo del Buon Governo”. Si aggiunse a questa alleanza anche il partito radicale guidato da Marco Pannella.
Il Partito della Sinistra, dal canto suo, formò un altro schieramento politico che si chiamò “Ulivo”, nel quale confluirono tutte le forze politiche di sinistra. Ed alle elezioni del marzo 1994 “Forza Italia” ottenne i maggiori consensi per quanto riguardava la destra ed il Partito della Sinistra sull’altro fronte. Berlusconi formò il governo ma dovette subito fare i conti con la Lega Nord, il cui leader dichiarò che sarebbe rimasto al governo, nonostante la sua avversione profonda verso il nazionalista partito di Alleanza Nazionale, solo se Berlusconi avesse permesso in seguito il Federalismo, punto essenziale per Bossi, ed avesse lasciato la proprietà di sue tre reti televisive con le quali, ovviamente, avrebbe potuto ottenere una maggiore notorietà e pubblicità. La Magistratura milanese intanto aveva messo sotto accusa i due grandi complessi industriali di Berlusconi, cioè Fininvest e Publitalia, per evasione fiscale, ed avviato un processo contro di lui.
Per raggiungere lo scopo principale del governo di Berlusconi, bisognava dare un taglio netto alle spese sociali ed accelerare le privatizzazioni delle imprese pubbliche. Quando fu presentata la manovra finanziaria si verificarono proteste e tensioni sociali. Fu molto scarsa la disponibilità del governo a dialogare con i sindacati e nell’ottobre di quell’anno più di tre milioni di persone scesero in piazza per un imponente sciopero generale. Ancora altri due grandi scioperi si svolsero a novembre ed a dicembre ed il governo fu obbligato a discutere con i sindacati, specialmente l’argomento pensioni che non dovevano essere modificate oltre il giugno 1995. E mentre era impegnato a Napoli in una Conferenza internazionale in qualità di capo del governo ospitante, nel novembre 1994 Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia emesso dalla Procura di Milano per una storia di corruzione relativa alla Guardia di Finanza. Subito si ebbe una crisi di governo, alimentata anche dall’uscita della Lega Nord, che accusava Berlusconi di non aver rispettato nessuno dei punti messi in programma al momento dell’alleanza. Il 22 dicembre il governo cadde.
Il nuovo incarico fu affidato a Lamberto Dini, già Ministro del Tesoro nel precedente governo. Nel gennaio 1995 ebbe la fiducia. Il suo governo fu costituito dal Partito della Sinistra, i Popolari Italiani, la Lega Nord, il Patto Segni, i Verdi, la Rete ed Alleanza democratica. L’opposizione fu assunta dai soli adepti di Rifondazione Comunista. Fu avviata la riforma del sistema previdenziale e fu varata una manovra finanziaria aggiuntiva; poi si approvò un disegno di legge che portava alla modifica del calcolo delle pensioni, copiando il sistema adottato dagli altri paesi europei. Tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996, Dini, considerando concluso il suo mandato, rassegnò le dimissioni. A febbraio 1996 il presidente della repubblica sciolse le camere ed il 21 aprile si svolsero le nuove elezioni che diedero la vittoria di misura alle forze di centro-sinistra. Il nuovo presidente del consiglio fu Romano Prodi, insigne economista bolognese, già presidente dell’Istituto Ricostruzione Industriale, ex Ministro dell’Industria ed esponente del partito dei Popolari Italiani. Egli pensò per prima cosa a ridurre il deficit dello stato poi con l’accorta politica economica di Ciampi l’Italia potè dare un taglio netto all’inflazione ed entrò nel Sistema Monetario Europeo. Fra il 1997 ed il 1998 l’inflazione scese al 3% e l’Italia entrò ufficialmente a far parte dell’Unità Monetaria.
Rifondazione Comunista fece di tutto per avversare il governo Prodi in tutti i settori, compresa la politica estera. Ed intanto al vertice del Partito della Sinistra c’era stato un cambio, le redini erano passate nelle mani di un nuovo segretario, Massimo D’Alema, che nel 1997 ebbe l’incarico di formare una Commissione Speciale per completare una serie di riforme istituzionali. Nel corso del 1998 si propose una nuova manovra finanziaria e Bertinotti invitò i suoi seguaci a firmare contro. Molti non accolsero il suggerimento e dissociandosi andarono a formare un nuovo partito che si chiamò Partito dei Comunisti Italiani, capeggiato da Armando Cossutta.
Prodi comunque si dimise e l’incarico fu affidato a D’Alema che lasciò la segreteria del partito a Walter Veltroni, già direttore dell’Unità, quotidiano del partito comunista. Per la prima volta in un governo italiano una donna ebbe il Ministero degli Interni: la prescelta fu Rosa Russo Jervolino.
La nuova legge elettorale, già da tempo sul tappeto, fu oggetto del referendum del 18 aprile 1999. L’affluenza fu scarsissima, primo perché presentata in forma poco chiara , imcomprensibile alla maggior parte degli italiani, e poi perché la grande inflazione del mezzo elettorale aveva messo a dura prova la popolazione che, inoltre, non aveva più la speranza che una volta o l’altra i programmi proposti trovassero un completamento.
Il 13 maggio 1999 Carlo Azeglio Ciampi, con larghissimo consenso, veniva eletto Prersidente della Repubblica. A dicembre Massimo D’Alema, a seguito di una crisi di governo, si dimise ed il nuovo governo fu formato da Giuliano Amato che assegnò ai vari ministeri persone competenti, come in quello della Sanità con la nomina dell’insigne professor Veronesi, medico di chiara fama internazionale.
Però il centro-sinistra aveva registrato numerose flessioni per
cui le elezioni regionali del marzo 2000 videro la vittoria
di Forza Italia su nove regioni, mentre al governo in carica ne erano
andate sei. Berlusconi ed i suoi alleati hanno continuato ad invocare elezioni
anticipate ma Amato, con la serietà che ha sempre contraddistinto
il suo operato politico e di uomo, sta tuttora conducendo in porto
la legislatura fino alla sua scadenza naturale dell’anno 2001.